martedì 19 maggio 2015

Verso il cuore della Cina, tra Marx e Braudel

Aspettando il treno che da Wuxi mi porterà più all’interno della Cina, osservo il ragazzo e il vecchio accanto a me. Non so se siano padre figlio o nonno e nipote. Il ragazzo ha il solito Galaxy in mano e scambia messaggi su WeChat, come tutti attorno a me, almeno tutti quelli sotto i 40 anni. Il vecchio ha la faccia del contadino, le rughe che solcano il volto, la pelle inscurita dal sole.

Il giovane cerca di spiegare al vecchio come dovrà prendere il treno, perché capisco che è venuto solo ad accompagnarlo, per essere sicuro che torni al suo paese. Il vecchio guarda il biglietto che riporta un QR code, il numero del treno treno, del posto a sedere, e appare totalmente perso, cerca di leggere ma non capisce, chiede, e il ragazzo si affanna a cercare di spiegare, un po’ spazientito, ripete, ripete.

Inizia il check-in, chiamano il nostro treno. Il ragazzo accompagna il vecchio fino al tornello elettronico, il vecchio non capisce neppure dove infilare il biglietto, il giovane lo guarda sconsolato scuotendo la testa.

 

In questa piccola scena credo ci possa stare tutto quello che è successo alla Cina di oggi. Perché invece per me tutto è piuttosto semplice, anche se sono l’unico straniero in tutta la stazione, anche se le indicazioni in inglese sono pochissime. Ma tutto è logico, scientifico. Certo i numeri esadecimali aiutano a capire (benedetti Arabi che li hanno inventati, un’invenzione così non poteva conoscere confini) ma tutto il resto segue comunque delle regole estremamente facili da imparare per chiunque. Giallo per treno in attesa, verde check-in, rosso check-in chiuso, sul marciapiede dei binari i numeri delle carrozze già pronte.

Eppure per quel signore, che penso abbia solo 15 anni più di me, tutto questo appare incomprensibile: questa enorme moderna stazione, uguale a tutte le altre stazioni delle migliaia di chilometri che ho percorso e che percorrerò, la completa digitalizzazione, tutti questi ragazzi su WeChat, un segnale 3G costante mentre attraversiamo risaie e montagne, la pubblicità ovunque. Che ne può capire questo vecchio contadino di quello che è successo in un una ventina di anni?

 

Un paio di giorni fa osservavo dall’alto di un palazzo la città di Wuxi. Sotto di me un pezzo della vecchia città dove avevo appena passeggiato, le case di legno, gli hutong pieni di piccoli venditori, quell’odore di cibo e di fogna, gli uomini che sputano per terra e le donne che fanno defecare i bambini sul selciato. Ma tutto intorno i grattaceli in costruzione, la città nuova che si espande in continuazione e inghiotte tutto. Complessi edilizi di una cinquantina di grattaceli ciascuno, ogni grattacelo una trentina di piani. Appartamenti che ho visitato in questi giorni… tutti nuovi, pavimenti lucidi, bagni confortevoli, grandi televisori digitali, i più moderni giochi per i bambini.

Centri commerciali, uffici, alberghi di lusso. Nelle strade auto di alta gamma incrociano scooter ormai tutti elettrici anche se magari con la vecchia abitudine di 3 persone sopra.

 

Attenzione però a non incorrere in un madornale errore. Chi pensasse che la Cina di oggi si è ‘avvicinata’ all’occidente, chi pensasse, come molti, che prima o poi la Cina si adeguerà alle classiche democrazie evolute, si sbaglierebbe di grosso.

Se Fernand Braudel vivesse ancora e visitasse la Cina di oggi, dovrebbe probabilmente aggiungere un quarto volume alla sua famosa trilogia che descrive le fasi dello sviluppo della società umana. Oppure dovrebbe totalmente riscrivere il terzo.

Una visita ad un supermercato con tutti quel cibo a noi quasi sconosciuto, la visione dal treno dei contadini nelle risaie: questo mi restituisce la ‘civiltà materiale’, ciò che si mantiene nei secoli e che fa parte della cultura di un popolo, del suo modo di vivere.

Il passeggiare tra gli hutong delle città rappresenta certo l’economia di mercato, ‘I giochi dello scambio’.

Ma la nuova Cina non assomiglia all’era del capitalismo del terzo libro di Braudel, ‘I tempi del mondo’ ma neppure al comunismo immaginato da Marx. Li supera completamente realizzando un mondo diverso, totalmente nuovo. Un’espansione economica totalmente pianificata da un élite autoritaria ma illuminata, scientifica nel programmare tutto, nel replicare all’infinito modelli e procedure razionali. Infrastrutture e trasformazioni immense che sono prodotte e finanziate da un nuovo capitalismo ma promosse e governate dalla politica. Una politica che non è una democrazia ma agisce mediando i desideri della classe media con la propria esigenza di potere e autoconservazione. Una società che ha coniugato la proprietà privata e il libero mercato con l’economia pianificata.

domenica 10 maggio 2015

Un'uggiosa domenica a Pechino

Arrivo nel pomeriggio in una Pechino piovosa e grigia. Nonostante sia domenica, c’è un gran traffico, in metropolitana sono parecchie le persone che indossano la classica mascherina.

Dal mio albergo un paesaggio poco invitante. Credo che oggi non mi muoverò da qui. Ho la vaga sensazione che il mio reportage da questa città sarà scarno, complice anche il lavoro.

 

Come due anni fa, Google è bandito dalla Cina, quindi invio questo post attraverso un trucchetto anche se il mio blog non lo posso vedere. Chissà se avrà funzionato.

Fine delle trasmissioni per oggi.

 

 

mercoledì 6 maggio 2015

Sincretismo

Questo era il sesto stereotipo di cui avrei voluto parlare. Forse più un mio personale stereotipo, per meglio dire una curiosità molto forte che avevo.
Il meticciamento razziale che si trasforma nel meticciamento religioso, la contaminazione della religione principale, quella cattolica, con molte altre influenze: di sette, di culti africani.
Ma anche la contaminazione delle forme di arte moderna e metropolitana con elementi religiosi, come questo murale di Proto Alegre sulla fertilità.

Purtroppo la mancanza di tempo, il periodo dell'anno lontano da festività particolari, mi hanno impedito di approfondire. Mi rimarrà questa curiosità sul Brasile e su tutto il Sud America.
Sarà per la prossima volta.

martedì 5 maggio 2015

Via dei Matti Numero Zero



Un mesetto fa, conversando con una cassiera di un negozio di elettronica della mia città, avevo accennato per scherzo al titolo di questa canzone. La ragazza mi aveva guardato con aria interrogativa... "Già, lei è troppo giovane per poterla ricordare"- le avevo detto.
Da bambino questa canzone mi aveva sempre stimolato la fantasia con quel tipico gusto del paradosso che amiamo quando siamo piccoli. Come mai sarà stata questa casa?

Beh, io oggi in Via dei Matti n. 0 ci sono stato proprio, quella casa l'ho vista per davvero.
Sta del quartiere di Iputinga, nella parte nord-ovest di Recife, una delle più povere della città.
Cliccate qui sotto per farvi un'idea su street view.
Iputinga 

E' una casa senza pavimento; in quello che si può chiamare tinello e nella camera da letto c'è solo una gittata di cemento, come in una cantina. Delle sedie di plastica come quelle dei vecchi circolini di paese sono le poltrone.  Una casa senza soffitto, o meglio i soffitti ci sono anche ma sono solo delle solette senza alcun intonaco da dove pendono dei non-lampadari costituiti da un filo e una lampadina.
Non ci sono finestre ma solo buchi aperti nel muro senza alcun infisso. Non ci sono porte ma solo passaggi tra i muri. Le pareti sono semplicemente dei muri grezzi, senza nessuna cosa appesa, come se non esistessero. Una cosa invece che abbonda sono le sbarre all'ingresso dei piccolo cortile, tutte le case qui hanno un ingresso che sembra quello di un carcere.

In Via dei Matti n. 0 ci abita, con la madre, la piccola Marta Leticia, 15 anni, che assomiglia in maniera impressionante a mia figlia: gli stessi capelli, lo stesso sorriso, la stessa sua timidezza di quando aveva questa età. Come mia figlia è molto carina ed è vestita semplicemente ma con molto gusto. Me la immagino alle 6 di mattina (qui le scuole cominciano prestissimo) a percorre a piedi queste strade per andare a prendere l'autobus.
Ha un bel laptop e parla di Facebook, Instagram, Twitter, della scuola e del suo sogno di diventare veterinaria, di farsi una famiglia. Nel salotto campeggia una TV Samsung 40", sotto la TV la bibbia come in quasi ogni casa che ho visto qui.

Nell'aspettare il taxi mi compro qualcosa da bere, osservo intorno, la gente gioca a carte sul marciapiede, un ragazzo passa in bicicletta suonando una specie di flauto di pan.
Non posso certo dire che questa di Via dei Matti n. 0 fosse una casa molto carina, come diceva la canzone; qui non se la passano molto bene, ma non ho nessun motivo per dubitare che Marta Leticia diventerà una brava veterinaria, e che forse andrà ad abitare in uno di quei alti palazzi della parte nuova della città. Ha la stessa determinazione di mia figlia e qui in fondo si respira una dignitosa povertà.




Cagare in Brasile, vogliamo parlarne?

Questo vuole essere un post di servizio, una sorta di avviso ai naviganti.
Perché la mia sensazione è che ci si trovi spesso a sorvolare sulla questione. Forse perchè quando capita di parlare di viaggi si è a tavola e certi discorsi potrebbero venire considerati sconvenienti. Di persone che sono state in Brasile ne ho conosciute e nessuna che mi abbia mai avvertito, nessuna che abbia approfittato di un momento di discrezione per prendermi in disparte e rendermi edotto della questione, evitandomi così situazioni imbarazzanti.
Come quella a Sao Paulo dove il receptionist dell'albergo, di origine asiatica, tentava di spiegarmi cosa era successo.
Va sul google translator e digita in portoghese, traduzione in inglese: "Toilet paper clog up the wc, please put toilet paper in the bin".

Quindi sveliamo questa scomoda verità, a tutto vantaggio dei cessi brasileri.
In Brasile sembra che le tubature di scarico e i sifoni dei water siano stati progettati per un agevole deflusso degli escrementi ma non della carta igienica. La quale va accuratamente gettata nel bidoncino accanto alla tazza.

Ora potete pensare quello che volete dell'igenicità di questa procedura, potete essere disgustati dal mio piccolo racconto e dalla dimostrazione fotografica ma... qualcuno doveva pur farlo, no?


lunedì 4 maggio 2015

Felicidade o Saudade?


Un posto spennaturisti ad Olinda, i due ragazzi fanno un piccolo spettacolo danzante, che si ispira al carnevale, molto sentito qui nel Pernambuco. La ragazzina è tutta sorrisi e sprizza felicità, i miei compagni di gita scattano e filmano.
Lo spettacolo finisce e il gruppo di turisti si butta nei negozi di souvenir intorno al patio. La ragazza si accascia sulla panchina, come un piccolo Pierrot disarticolato e abbandonato in una soffitta. Sul suo volto mi appare una grande tristezza.

Il Rivotril è diventato qui in Brasile una vera piaga sociale. Me ne accenna Rodrigo, un ragazzo di Sao Paulo con cui avevo conversato la settimana scorsa, in un posto molto fico, una vecchia villa coloniale diventata un locale, una band di jazz stile Charlie Parker di sottofondo. Alcuni psichiatri lo prescrivono con troppa facilità, altri sono disperati nel tentativo di far superare la dipendenza ai propri pazienti.
Clonazepam, un derivato benzodiazepinico con effetti ansiolitici e sedativi.
All'inizio penso sia un problema di Sau Paulo, città non delle più rilassanti, ma poi mi documento e scopro che in una ricerca è emerso che il 20% degli abitanti di 11 città dello stato Minas Gerais, a nord di Sao Paulo, sono risultati dipendenti da Rivotril, una persona su cinque, ci pensate?

Ed ecco il quarto stereotipo. O meglio il quarto e quinto messi assieme, come due facce della stessa medaglia. "I brasiliani sono un popolo di gente sempre felice". Oppure è Saudade?
Confesso che trovo le maschere del carnevale nel piccolo museo di Recife un po' inquietanti. Forse sono io strano, non ho mai trovato il carnevale particolarmente allegro.

Ma c'è una cosa che mi fa pensare: i brasiliani emigrati tornano quasi sempre in Brasile; a differenza di altri popoli,  non creano grandi comunità radicate in altri stati ma appena possono se ne tornano a casa. La sorella di Ilton, che stava facendo carriera a Londra ma ha rinunciato per tornare a Porto Alegre, la cameriera del ristorante in cui mangio una deliziosa aragosta ieri sera. Parla un inglese perfetto: "Ho vissuto a Londra per 3 anni, avevo un buon lavoro, ma poi non c'è l'ho fatta più: mi mancava il caldo, il cibo, tutto". Ora apre e chiude la porta del ristorante, ma mi sembra contenta, aspetta un bambino.
Non so se sia felicidade o saudade ma c'è qualcosa che lega la gente a questo posto.










domenica 3 maggio 2015

Un turista nel Pernambuco


Forse il caldo umido, forse una certa sensazione di insicurezza nel passeggiare da solo e senza meta in questa città, forse la stanchezza accumulata. Oggi decido di fare il turista. Telefono ad un'agenzia del posto e prenoto una gita organizzata. Giro turistico di Recife e sosta ad Olinda.

Parto prevenuto perchè ho sempre detestato le gite in comitiva. Ma la cosa si rivela più interessante del previsto, più che altro perché qui di turisti stranieri non ne esistono quasi. I miei compagni di viaggio sono tutti brasiliani e in  fondo mi restituiscono uno spaccato del paese che ho anche incominciato a conoscere: una coppia dal Rio Grande do Sul (parliamo di Porto Alegre), tre ragazzi un po' yankee di Sao Paulo, una famiglia di Rio e un'altra coppia di spagnoli che vivono a Salvador (Bahia). Tranne i Paulisti nessuno parla naturalmente l'inglese quindi con gli altri è più un parlare a mezze parole, a gesti, ma si finisce per capirsi.

La guida di chiama Junior, ragazzo simpatico che ci fa da cicerone in portoghese.
Mi metto a ridere quando ci dice che Recife è la 'Venezia del Nord-Est' perché avevo appena letto un libro in cui si scherzava sul fatto che le guide turistiche qui dicono sempre questo, SOLO le guide turistiche...
Incrociamo gli sguardi e ammette: "Um puoco diferente"
"Muito diferente" Junior...

Olinda è una piccola città che è stata dichiarata patrimonio dell'umanità UNESCO perchè è una delle antiche città  coloniali meglio conservate del Brasile.
Qui si ritrovano intatte le influenze portoghesi, olandesi ma anche tratti arabi soprattutto nei balconi.
Molte le chiese ed è Domenica mattina quindi ci sono messe in corso. Sul sagrato della chiesa principale un drappello di persone protesta silenzioso con cartelli. A Paranà ci sono stati scontri tra la polizia e dei professori in corteo e pare ci siano andati giù duro.

Voglio fare il turista fino in fondo e mi faccio cucinare da una vecchia signora una tapioca al cocco e formaggio. Devo dire che è una delizia.
Sul ritorno verso il pulmino faccio un po' di conversazione con lo spagnolo di Bahia. Dice che è venuto qui per lavoro, in Spagna non ce la faceva più, i politici hanno sputtanato tutto.
E in effetti mi fa pensare al nostro povero Mediterraneo che, diciamoci la verità, è molto meglio di questi posti e a cui i mi sentirò sempre legato.
Ma ci siamo rovinati la vita da soli: tre stati a nord che sono sull'orlo della bancarotta e a sud una culla della civiltà in cui ormai dilaga una furia di inciviltà.
Qui il mare è pieno di squali, da noi purtroppo di morti.






venerdì 1 maggio 2015

Lasciando Sao Paulo

Sulla via dell'aeroporto cerco di intrattenere un po' di conversazione con il tassista Edson; qui in Brasile quasi nessuno parla una parola di inglese, ci si esprime mischiando qualche parola di portoghese, spagnolo e italiano.
Parliamo di quanto è simpatica Catalina, che Edson ha portato all'aereo il giorno prima. Appena se ne fa cenno si comincia a sorridere. Catalina lascia sempre il segno ovunque vada e chiunque conosca, la sua allegria è contagiosa. Due sere fa, conversando in un locale Jazz, scherzavo sul fatto che si potrebbe inviarla in missione sul fronte dell'ISIS. Sono convinto che dopo un paio di settimane si intravvederebbero delle crepe nel muro dell'integralismo, comincerebbero a filtrare dichiarazioni rilassanti che ammettono che insomma, sì, forse l'abbiamo messa giù un po' dura, che in fondo la vita va presa con un sorriso.

Un elicottero ci passa sopra la testa, un rumore che mi è stato familiare in questi giorni perché non so se sapete che Sao Paulo detiene il record del numero di elicotteri nel mondo. Sono ben 500 con 700 voli al giorno. Il traffico è talmente pessimo che ogni azienda che si rispetti ha un'elisuperficie sul tetto e l'elicottero viene utilizzato dai dirigenti come una specie di limousine.
Un'altro rumore che mi rimarrà nei ricordi è quello che ogni mattina ho sentito dal soffitto della mia camera di albergo. Mi sembrava una specie di levigatrice e mi chiedevo cosa mai facessero tutte le mattine. E invece era il rumore dello spremifrutta che veniva incessantemente usato per preparare i succhi per la colazione. Un rumore che si sente in continuazione in ogni locale, ad ogni angolo di strada. I sucos qui sono decine e di tutti i tipi.

La difficoltà linguistica ha fatto presto estinguere la conversazione con Edson e allora apro il  mio Kindle immergendomi nella lettura riguardo alla mia prossima città: Recife. So già che sarà molto diversa.



The Body as a Capital


Il terzo stereotipo di cui vi vorrei parlare riguarda il culto del corpo dei brasiliani.

Basta una passeggiata per le strade per rendersene conto. La prima cosa che salta all'occhio è l'incredibile presenza di estetisti, piccole cliniche di chirurgia estetica, scuole di ginnastica, di ballo, di zumba, fisioterapisti e tutto ciò che si possa pensare che riguardi la cura del proprio corpo e della propria forma fisica.
Sul ponte che porta al Parco Ibirapuera, la skyline di Avenida Paulista sullo sfondo, incontro una moltitudine di persone di tutte le etnie e tutte le età che fanno jogging.

Se ci fermassimo al semplice culto per la bellezza 'sensuale' credo che commetteremmo tuttavia un errore, filtreremmo questo fenomeno in base al nostro stereotipo un po' carnevalesco e pruriginoso del Brasile.
La migliore definizione la trovo in un articolo di Mirian Goldenberg, un'antropologa di Florianópolis: 'Il corpo come un capitale'.
La Goldenberg parla di quanto questo concetto sia diventato parte dell'identità nazionale, che unifica tutti i brasiliani di tutte le etnie e classi sociali; di quanto questo risalga ai tempi della schiavitù ma soprattutto al mito della liberazione dalla schiavitù.
Il corpo come come segno dello sforzo fatto per raggiungere la forma fisica, il corpo come un brand, un'icona fashion, il proprio corpo come un premio meritato per raggiungere un fisico 'civilizzato'.
Il corpo è per i brasiliani quello che la statua della libertà è per gli americani.



Mesticagem


Se le origini etniche dei due giovani turisti che si stanno scrutando l'un l'altro di fronte alla Cattedrale di Sao Paulo in Praça da Sé possono essere facili da intuire, non si può dire lo stesso di molti volti che si incontrano da queste parti. Uno sguardo alla gradinata della chiesa penso possa fare intuire di quante etnie possa essere composto il Brasile.
E veniamo dunque al secondo stereotipo: i brasiliani sono un misto di tutte le razze.

Anche i focus group a cui ho assistito per il mio progetto di ricerca non fanno che confermarlo. Da dietro il vetro a specchio osservo e poi chiedo a Lucas: quali sono le etnie che vedi in questo gruppo?
Dunque su Marcus non ci piove: è decisamente Africano, chiaramente discendente dagli schiavi importati dai Portoghesi. Luiza è certamente Europea, potrebbe anche essere Italiana.
Anche Natalia a me sembra Europea ma Lucas mi contraddice deciso: è sicuramente Portoghese (che si badi bene è cosa diversa).
E Aline? Lucas alza le spalle e non è sicuro: forse un'ascendenza Europea ma sicuramente anche degli Indiani indigeni ma potrebbe esserci anche del Portoghese...
E tu? Qui Lucas mi spiazza perché mi appare ancora più dubbioso: penso di avere del sangue Portoghese ma anche Negro.
Ma a me sembra che tu abbia anche delle ascendenze di indiani indigeni...
Sì è probabile ma, boh, e poi a noi brasiliani non è che importi molto!

Gilberto Freyre è stato un sociologo, antropologo e pittore Brasiliano che consiglio come lettura a tutti coloro che vogliano immergersi velocemente nella cultura del Brasile. La sua lettura mi sta accompagnando e mi sta aiutando. Osservo e poi mi ci ritrovo, leggo e poi riconosco. E sicuramente quello che scrive sulla storia e la stratificazione delle razze in questo paese è molto interessante.
Qualcuno ha detto che Mesticagem è una sorta di 'democrazia razziale'.
Andiamoci piano, prima di usare la parola 'democrazia' bisognerebbe prima forse fare un giro nelle favelas e contare quanti bianchi ci vivono...
Però è vero che la via brasiliana alla questione della razza è molto diversa da quella tipicamente anglosassone. Innanzitutto i Portoghesi erano essi stessi molto imbastarditi di partenza, e poi, forse anche per questo, il loro sistema aveva regole di segregazione molto meno nette e precise.
Freyre cita un modo di dire: "Se una persona non si comporta propriamente da Negro allora è un Bianco". In effetti il sistema brasiliano sembra più costruito su divisioni di classe che possono essere approssimate alle razze ma in maniera assolutamente non rigida e piena di eccezioni.
Insomma, per farla breve, se una schiava africana era particolarmente gnocca e magari anche piuttosto intelligente, non era infrequente che entrasse nelle grazie del proprietario della piantagione (spesso poligamo), ci facesse un paio di figli, e magari se uno dei figli era particolarmente sveglio poteva anche diventare un po' capetto anche lui nella piantagione senza che nessuno si scandalizzasse più di tanto, magari avrebbe adocchiato un'indigena piuttosto carina appena deportata da una spedizione dei Bandeirantes nell'entroterra e... così via...

Ed è forse per questo che risulta molto difficile determinare da quali e quante scopate interrazziali possa essere stato determinato il viso di Aline.

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Un lettore del blog mi ha chiesto perché pensassi che lo spirito del negozio Endossa fosse più vicino a quello del Brasile che avevo fino ad ora conosciuto.

Per spiegarvelo esco presto dal mio albergo, verso le 7.30, fa ancora fresco e soprattutto le strade sono completamente libere dalle auto; il che mi consente di sostare in mezzo alle vie, inginocchiarmi, quasi sdraiarmi per trovare la migliore inquadratura senza correre il rischio essere investito.
Percorro poco più di 500 metri, in una direzione del tutto casuale, perché il mio scopo è proprio di farvi capire. A occhio e croce dovrei aver coperto un decimo di chilometro quadrato.
Scatto le foto dei murales più belli e poi, tornato in albergo, li ricompongo nell'immagine che vedete, nell'ordine in cui li ho incontrati.

Ora, pensando che Sao Paulo ha una superficie di 7944 chilometri quadrati, moltiplicate per settantanovemilaquattrocentoquaranta volte questa immagine. Oppure, se preferite, pensate al numero di muri, di saracinesche di negozi, di cabine elettriche, di cessi pubblici, di piloni delle sopraelevate che questa città possa avere e pensate che in ognuno di questi spazi un anonimo o quasi-anonimo artista ha dipinto qualcosa.

Ed è per questo che qualche decina di opere esposte al museo di arte moderna mi sembrano poca cosa per esprimere la cultura di questo popolo.
Sebbene i vari governi centrali abbiano molte volte tentato di celebrare o rappresentare il Brasile attraverso costose opere pubbliche, i brasiliani resteranno probabilmente un popolo di individualisti, ciascuno dei quali cerca al meglio che può di farsi i cazzi suoi.