domenica 23 giugno 2013

Il ritorno: un bilancio

Bombay è stata l’ultima tappa del mio viaggio. 

Questo non è stato un viaggio da turista, dovevo lavorare e nel tempo che mi è rimasto libero sono stato alla larga da monumenti, musei, posti turistici. Non mi hanno mai interessato.
E’ stato un viaggio tra la gente di tre grandi città dell’Asia.
Tre città profondamente diverse.
Istanbul: una vera città millenaria, si sente che è stata al centro di un mondo e forse si intuisce che è un gigante che si sta risvegliando. Una città vera con dei veri ‘cittadini’. Ve lo dice un provinciale.
Shanghai: ho già scritto, una città senza fine ma si sente che la Shanghai nuova è un po’ artificiale. Il passaggio dalla vita rurale è stato compiuto a velocità supersonica e in maniera molto organizzata con il risultato di essere per me alienante.
Bombay: qui il passaggio e la migrazione da cultura rurale a cittadina non sembra essersi mai compiuto, sembra rimasto sospeso; questi milioni di suoi abitanti che vivono negli slums sembrano rimasti accampati in una perenne lista d’attesa. A parte pochi fortunati.
Ma le nazioni che ho visitato sono tutti paesi che stanno crescendo a velocità impressionante e l’aggregazione metropolitana sembra comunque vincere su ogni cosa. Big is beautiful! (si fa per dire).

Rispetto ai miei ultimi viaggi c’è un cambiamento importantissimo va rafforzandosi sempre di più: l’impatto enorme della tecnologia, soprattutto di quella mobile.
Il mondo connesso è forse un concetto scontato ma quando lo vedi attraversare paesi, culture e classi sociali fa proprio impressione.
E anche il mio modo di viaggiare ne sta risultando completamente stravolto. In qualsiasi posto mi sia trovato mi è bastato estrarre il cellulare  e cercare la mia posizione sulla mappa, vedere dove mi trovavo, cercare posti, calcolare percorsi, localizzare i punti wi-fi più vicini. Memorizzavo la posizione del mio albergo e potevo passeggiare senza pensieri sicuro di poter poi ripercorrere la via del ritorno, altro che i sassolini di Pollicino. Ho controllato e risposto ad email dai minareti di Istanbul, dai grattacieli di Shanghai e dagli slums di Bombay. Con Evernote taggavo informazioni e siti dal mio laptop che poi trovavo sincronizzati sul mio smartphone quando mi occorrevano. Ho potuto filmare e fare foto.Tutto a portata di mano.
Ma la tecnologia ha fatto di più per me; ha reso dinamico e in continua trasformazione il confine dell’incontro tra la mia conoscenza e quello che osservavo. Mi spiego meglio. Una volta quando partivo per un viaggio mi documentavo un po’, magari leggevo prima un libro, ma quando ero sul posto la mia conoscenza pregressa era quella e dovevo aspettare il ritorno per rielaborare.
Ora viaggiare è qualcosa di completamente diverso. Dal mio Kindle ho potuto downloadare in qualsiasi posto dove mi trovassi ogni genere di letture: saggi storici sul paese che stavo visitando, sulla cultura di consumo e ogni cosa che potesse incuriosirmi. Con internet ho potuto approfondire e verificare istantaneamente informazioni che mi servivano a mettere insieme i pezzi di quello che osservavo. Non solo; le informazioni che raccoglievo modificavano di volta in volta i miei itinerari, il mio modo di guardare la realtà.
Grazie alla tecnologia ho potuto ‘aumentare’ la realtà che stavo osservando ricollegandola al il mio punto di osservazione che andava cambiando cammin facendo. Cose impensabili una ventina di anni fa.

E infine c’è stato questo blog con cui ho condiviso con voi le mie osservazioni e riflessioni. Spero sia stato meno noioso di certe interminabili proiezioni di diapositive.
Per me il blog è stato anche un modo per poter vivere meglio il mio viaggio. Pensando a queste tre tappe da fare in due settimane mi ero un po' visto come il personaggio di Wallace in fila al supermercato, con lo stress delle cose da fare che ti aspettano, le code interminabili, la continue situazione di disagio.
E' stato anche attraverso il blog che ho potuto acquisire più consapevolezza anche rispetto agli aspetti più 'laterali' delle cose che osservavo. E allora mi sono pesate di meno anche la lontananza da casa, le code e le attese negli aeroporti, i lacrimogeni di piazza Taksim, il caldo torrido, un albergo non proprio al massimo dell'igiene, i petulanti imbroglioncelli di Bombay e infine la corsa forsennata per acchiappare il volo di ritorno dallo scalo di Dubai.



sabato 22 giugno 2013

Il villaggio nella metropoli

E' Sabato e non ho voglia di salire di nuovo su un auto. Già lo dovrò fare per andare all'aeroporto.
Decido di far colazione a Dadar ovest, sulla baia di Mahim. Guardo su Google Maps e sembra vicino, basta solo attraversare la ferrovia e sono pochi minuti a piedi.
Le strade sembrano un pochino meno affollate dei giorni scorsi, un sole pallido si alterna agli scrosci d'acqua.
Salgo delle scale per attraversare i binari e quando scendo dall'altra parte ecco che capito per caso
nel mercato dei fiori di Dadar. Le stradine sono piene di venditori ambulanti, un mercato al coperto è adibito all'ingrosso. E' un'esplosione di ceste di petali, ghirlande, colori e soprattutto per una volta l'odore fetido è totalmente sovrastato da essenze inebrianti. Questi petali, queste ghirlande andranno a profumare e portare un pizzico di natura nelle case, negli alberghi, negli ristoranti di Bombay.
Proprio ieri, leggendo, mi ero imbattuto in una citazione di un sociologo che sosteneva che l'india si trova in un perenne e tormentato viaggio ideale tra l'innocenza del villaggio e l'impersonale crudelta' della citta'.
Mai come qui ci si rende conto che questa sia una tesi interessante. Come non sentire in questi vicoli la nostalgia per il villaggi rurali lasciati per la città? Villaggi da cui si è fuggiti per abbandonare la miseria e la casta a cui si apparteneva e per cercare un'improbabile fortuna nella grande metropoli, per tentare un altro giro nella ruota del proprio destino.

Faccio colazione in un grazioso coffee bar davanti al Shivaji Park. Anche questa sembra una zona di lusso. Nel parco ragazzi giocano a cricket o a calcio. Attempati signori fanno jogging, altri fanno meditazione. C'è persino una palestra allestita all'aperto, sotto una tettoia con delle macchine  che sembrano di 50 anni fa.


venerdì 21 giugno 2013

Anche io volevo forse finire quella birra…

Parshva, il secondo intervistato, è un ragazzo la cui famiglia è originaria del Gujarat, una regione a nord-ovest dell'India, anch'essa terra di imprenditori. Trupti mi spiega che in genere hanno un carattere più aperto e gioviale. In effetti è vero, e poi Parshva non è certo un bamboccio viziato, ha studiato sodo da ingegnere, ha un buon lavoro e non se la tira per niente. 
Vorrebbe un'India che sappia disciplinarsi, che lasci alle spalle certe divisioni sociali,  che sappia essere determinata ma anche conservare la propria identità.
E' un ragazzo fortunato ma sembra sapersi meritare quello che il destino gli ha dato. 

Forse è anche ispirato da lui che questa sera ho deciso di cenare qui al Leopold Cafè nel quartiere Apollo Bandar, quasi in fondo alla penisola sulla quale si sviluppa Bombay.
Una zona tipicamente di turisti, da secoli. Qui vicino sorge il Gate of India, costruito dagli inglesi, uno dei pochi monumenti della città, niente di speciale.
Il Leopold Cafè è stato uno degli obiettivi degli attacchi terroristici del Novembre 2008. 166 persone uccise in totale, 7 qui tra tavoli dove sono seduto. I terroristi pakistani sono entrati e hanno mitragliato all’impazzata sulla gente, fatto esplodere granate.
Non sono stato attratto dal gusto del macabro; alcuni turisti vengono qui per vedere i buchi dei proiettili che il proprietario ha conservato ma francamente non ho neanche  prestato attenzione  a dove siano.
La ragione era più che altro perché questo è diventato un simbolo di resilienza. Un paio di anni dopo gli attacchi, una coppia che era rimasta ferita tornò al Leopold. Il marito andò a salutare il proprietario Farhang Jehangi: “Sono venuto a finire la mia birra…”
Il caffè ha anche ispirato un film e una canzone.
In effetti il Leopold ora è pieno anche di ragazzi indiani, un po' del genere di Parshva. Servono birra Budweiser in enormi recipienti che assomigliano a frullatori da cui si può spillare la birra al tavolo.
Dopo gli attentati, molti ragazzi di Bombay hanno visto in questo posto un simbolo della vita che doveva continuare e credo che questo vada al di là del semplice riferimento agli attacchi terroristici.
C’è una bella atmosfera perché non c’è quella sensazione di odiosa separazione tra la miseria e il lusso. Il locale è pulito, ben organizzato ma è un po’ tutto più ‘easy going’, senza ossequiosi camerieri che vengono a posarti il tovagliolo sulle gambe e servirti ossessivamente il cibo sul piatto. Spero che i ragazzi di Bombay possano con il tempo apprezzare questo stile di vita. 


Certo all’ingresso non manca la guardia con il metal detector ma si può anche capire.

Prashant vuole fare il pilota d’aereo

L’intervistato di oggi si chiama Prashant, un ragazzo di 24 anni. La sua famiglia è di origini Sindhi, una regione ora parte del Pakistan.
Il quartiere è a sud di Bombay, di fronte al mare, zona molto ricca, mi dicono. I caseggiati ai miei occhi sono equivalenti a quelli di una nostra periferia ma qui ci abita gente molto benestante.
Nella strada per arrivare fino a qui, la solita ora e mezza di auto, è ancora l’interminabile fila di baracche, l'infinito campionario di gente che si arrabatta.
Qui siamo invece in un appartamento tranquillo. Prashant ha studiato a San Francisco, scienze, ma ora vuol fare il pilota di aereo. Ha preso il brevetto in California e frequenta qui un club di aviatori. Di lavorare non se ne parla. La sua vita è un autentico spasso, una festa continua con gli amici, BMW, marchi di lusso. I genitori, imprenditori  - Trupti, l’assistente della moderatrice mi racconta che molti Sindhi lo sono -, lo lasciano fare perché lo credono un mezzo genio. A me non sembra proprio. E credo che la pensi così anche il tizio che fa le riprese; ci scambiamo un sorriso da padri di famiglia e sembriamo dirci: chi comincia a prenderlo a sberle?
Non c’è bisogno di interprete, Prashant parla un ottimo inglese. La conoscenza dell’inglese è forse il metodo più facile qui per capire la classe sociale. Nei centri commerciali di lusso l’hindi è bandito dal merchandising e dalla pubblicità. Un modo per far capire che quelli sono posti solo per un certo tipo di persone.


Mentre Prashant parla, lo sguardo mi corre giù dalla finestra del suo salottino. Una bimba che avevo intravisto salendo, a piedi nudi nella pozzanghera, chiede la carità. A pochi passi sdraiato per terra suo padre che la esorta a fare di più. Ognuno ha i genitori che la vita gli ha dato ma in questo paese il destino sembra contare più che altrove...

La TV tra sogno e sapone

La TV mi accompagna come sottofondo durante il lavoro in albergo. Tengo il volume abbastanza alto anche per coprire un fastidioso cicalino elettronico che fa l’ascensore nel corridoio.
Ovviamente non capisco una parola.
I numerosi canali trasmettono in buona parte soap opera di Bollywood.




Le storie rappresentate sono quasi tutte appartenenti ad un mondo fantasy, fiabesco, radicato nel profondo delle tradizioni dell’india. Mi sembra di intuire storie di fanciulle promesse spose a odiosi personaggi che vengono riscattate e salvate da madri coraggiose o temerari giovani innamorati. Definirei la cifra stilistica un ‘espressionismo soap’. Del soap c’è tutta l’ovvietà nel trattare i sentimenti e la finitura di basso costo fatta di sfondi finti, di improbabili costumi; del cinema espressionista ci sono le inquadrature insistenti degli sguardi, dello strabuzzare degli occhi, gli effetti smaccati della macchina da presa con lo scopo di esaltare i momenti di climax delle storie.
Si potrebbe ironizzare molto su questo genere di fiction ma se per un attimo mentalmente si da le spalle alla TV immaginandosi chi la stia guardando in questo momento, dai palazzi alle baracchette di questa città,  alle campagne di questo immenso paese, non si fa molta fatica a capire quanto sia importante continuare a sognare un mondo lontano dalla realtà e mantenere certi valori del proprio passato.

Ma c’è di più: il mio lavoro mi ha insegnato che il vero contenuto della TV è la pubblicità, su questa la TV si regge economicamente, il resto è solo un intermezzo per attrarre l’attenzione degli spettatori.
E quello che impressiona è che la stragrande parte della pubblicità martellante è costituita da spot di igiene personale e della casa. Interminabili dimostrazioni di spazzoloni, detersivi, saponi interrompono in continuazione queste bollywoodiane cavallerie rusticane.

La penetrazione delle più banali categorie di prodotti per l’igiene raggiunge spesso cifre inferiori al 15%, l’opportunità di sviluppo del mercato è enorme. Giganti come Uniliver stanno investendo parecchio. E non è solo una questione di povertà; in India ci sono 800 mila utenze cellulari su una popolazione di 1,2 miliardi di persone. Questo vuol dire che anche il più sfigato ragazzo che dorme in una baracca di Bombay gira probabilmente con un Samsung in tasca e mentre sto scrivendo sta messaggiando ad una ragazzetta o un amico.
La tecnologia è arrivata prima del sapone in questo repentino processo di passaggio dalla vita rurale alla vita urbana.

giovedì 20 giugno 2013

Come un insetto

Vinco il mio senso di smarrimento e la mia iniziale repulsione. Faccio una doccia, esco dall’albergo e mi tuffo tra la folla.
La zona intorno a me è affollata da una quantità di baracchette sui marciapiedi, in ognuna una piccola attività commerciale: cibo, bevande, barbieri improvvisati e le più disparate attività che gli esseri umani possono inventarsi per sbarcare il lunario. Una baracchetta ha un insegna con scritto “Typing center”. Mi chiedo cosa sia. Un tizio ha recuperato una vecchia macchina da scrivere e si offre di battere a macchina lettere. Un signore gli sta dettando qualcosa e lui scrive.
A far sorridere qui a Bombay è anche l’esagerazione con cui si definiscono i negozi. Una baracchetta con una malandata fotocopiatrice si chiama “International Copy Center”, una banale e polverosa merceria “Dream Fashion World”. Non so se ci sia dell’ironia in tutto questo.

E’ curioso come comunque l’essere umano si adatti velocemente ad un ambiente. Dopo qualche decina di minuti ho preso possesso della zona, ne ho intuito i punti cardinali e soprattutto mi muovo con dimestichezza: scanso auto e baby taxi, mi lascio strombazzare da loro per spostarmi all’ultimo secondo, attraverso la strada tra le auto con il semaforo rosso (rosso o verde qui fa lo stesso). Anche io mi sono fatto un po’ insetto. E capisco che ogni insetto in fondo può avere la sua storia.

Il dentro e il fuori

La mia zona di comfort è definita da questo van Toyota. Pulito, protetto, con bevande fresche al suo interno, un driver che sa sempre dove andare. Il van mi porterà in giro per Bombay durante questi tre giorni di interviste. Dhananjay, il capo dell’agenzia di ricerca ha organizzato tutto per me ma anche lui si sposta con il driver. I viaggi in auto sono interminabili. Bombay si sviluppa verticalmente lungo una penisola piuttosto stretta. Non esiste la metropolitana, il traffico è incredibile. Qui dentro ci si sente però completamente separati.
L’impressione che si ha è quella di esseri umani come una moltitudine di insetti. Si usa il clacson non per nervosismo ma come si potrebbe scacciare uno sciame di moscerini con un gesto della mano.

Quello che mi colpisce di più è la totale mancanza di distinzione tra ‘dentro’ e ‘fuori’. Riflettendo, è anche questo che provoca questa impressione di miseria e abbandono. Quel saldatore che sta riparando qualcosa forse non lavora in un ambiente così meno salubre di un suo omologo in qualche periferia delle nostre città. La differenza è che lui non è rinchiuso in un capannone, separato dal resto ma sta saldando sulla strada e le scintille arrivano fino a te. Così come quella capra sta con i suoi padroni come probabilmente farebbe una capra sarda ma ad impressionarti è che tutto avvenga sullo stesso marciapiede.
La sera però cominci ad intuire dove e come la maggior parte di questa gente dorma. Non so come si possa fare ad abituarsi a questo pensiero.
Qui a Bombay si potrebbero scattare centinaia di fotografie, quasi ogni angolo a cui rivolgi lo sguardo costituirebbe un’inquadratura. Da ex-fotografo appassionato ne sono francamente attratto.
Ma so che di fotografie ne farò pochissime. La mancanza di tempo, il non sentirsi sempre sicuri ad estrarre un iPhone 5 in mezzo a ‘sto casino, ma soprattutto mi coglie un certo rifiuto ad ‘estetizzare’ con degli scatti delle situazioni che nella realtà di estetico hanno proprio poco. Ho deciso quindi di riprendere qualche minuto a caso di quello che si vede passando con l’auto per una qualsiasi strada. Non c'è nulla di speciale, un semplice 'campionamento' random.

Immaginate questo ‘paesaggio’ che si sviluppa per chilometri e chilometri. In ogni baracca un mestiere, una sua storia umana, sotto ogni ponte gruppi di senza tetto accampati.

Dall'ordine al caos...

Come esprimere diversamente l’impressione provocata dal passaggio da Shanghai a Bombay?
Da un lato l’effetto di un controllo totale da parte di una dittatura che sta pianificando nei minimi dettagli la vita dei propri sudditi, dall’altro una società democratica ma assolutamente eterogenea, piena di contraddizioni e dove tutto appare assolutamente illogico e apparentemente ingovernabile.
E’ probabile che il mio racconto di Bombay vi lascerà insoddisfatti. Certo il tempo libero qui sarà pochissimo ma non è l’unica ragione.
Naturalmente ci sono fatti che tutti conosciamo, come per esempio il fatto che il 50% dei suoi 20 milioni di abitanti vive in baraccopoli o addirittura senza un tetto, oppure delle vacche per le strade. Ma un conto è saperlo o aver visto qualche servizio in televisione, un conto è esserci dentro. Anche perché le baraccopoli non sono dislocate in una lontana periferia, sono ovunque. 
Lo shock maggiore è quello del totale stravolgimento della propria area di comfort che è fatta della percezione di sicurezza personale, di igiene, di separazione da ciò che per noi può essere disgustoso o eccessivamente toccante, dall’aspettativa di una logica con la quale le cose sono organizzate. Aver fatto il servizio militare certamente mi aiuta perché anche questa è una situazione in cui ti trovi catapultato in un ambiente diverso da quello che hai frequentato nella tua regione, nella tua classe sociale. Ma qui si va oltre.

Il taxista che mi prende all’aeroporto, pur essendo a corsa prepagata, se la prende comoda. Si ferma prima a fare benzina in un fatiscente distributore a gas. I bambini che aiutano alle pompe giocano a spruzzarsi il gas come se fossero fucili ad acqua. Il distributore è totalmente caotico perché, per qualche strana ragione, è stata prevista una strada di accesso alle pompe ma non una di uscita, quindi le auto devono fare tutte marcia indietro per uscire. Poi si ferma a gonfiare le gomme e siamo assaliti da ragazzini mendicanti. Ripartiamo dopo un’attesa di parecchi minuti, il taxi sembra debba cadere a pezzi da un momento all’altro.
Sulla strada un’interminabile distesa di baracche, officine a cielo aperto, animali. Ma rischierei di essere banale in queste descrizioni.
Il mio albergo è in Dadar Est. Una zona piuttosto centrale e rappresenta la Mumbai più tipica. Le strade sono affollate di gente che transita dalla vicina stazione ferroviaria e brulicano di auto, taxi e baby taxi a tre ruote (molto simili ad Ape Piaggio). Piccoli trasandati negozietti che vendono di tutto.
Nonostante siamo in pieno periodo dei monsoni, sono fortunato. Le piogge sono state continue nelle scorse settimane ma ora qualche goccia ogni tanto. Il caldo è più sopportabile di quello di Shanghai.

L’hotel non è certamente una scelta azzeccata ma rappresenta una buona media di un hotel per viaggiatori indiani. Non penso ci siano altri stranieri oltre a me. Quelli sono tutti altrove, in zone più tranquille e separate.
Ad ogni fatiscente piano c’è un tavolino con una guardia giurata. Sono dappertutto qui a Bombay, soprattutto dopo gli attentati terroristici del 2008.La cosa non è che ti faccia sentire meglio.
Però qui almeno c'è una wi-fi che funziona bene e non ci sono censure.
Sono stravolto dal viaggio, doccia e a letto. Domani un altro giorno.

martedì 18 giugno 2013

E quindi uscimmo a riveder le stelle

Dongtan avrebbe dovuto essere la prima città interamente eco-sostenibile del pianeta. Il governo aveva deciso di costruirla sull’isola di Chongming, proprio qui a Shanghai, tutto era stato minuziosamente calcolato in occasione dell'Expo 2010. Edifici più bassi ed energeticamente auto-sostenibili (eolico e solare), canali per la fornitura e il riciclo totale dell’acqua, solo auto e mezzi pubblici elettrici. Entro il 2050 si pianificava potesse ospitare una popolazione di 500.000 persone. Un paradiso ambientalista calcolato a tavolino da questa dittatura del capitalismo un po’ paracula.
Ma per il momento le cose si sono arenate e i lavori vanno a rilento.
“Sei a Shanghai? Ma sei riuscito a vedere il sole? Perché io non l’ho mai visto” Michael, un moderatore giramondo che lavora per me, ride quando conversiamo questa mattina su Skype. In effetti anche io a Shanghai, ora che ci penso, non ho mai veramente visto il sole. Si intravedeva dietro una foschia fatta di umidità e di smog ma non ne ho mai visto i contorni. In attesa di  Dongtan ci teniamo quello che passa il convento.
Il mio aereo per Bombay sta effettuando il taxiing sulla pista. La telecamera piazzata sull’esterno dell’aereo riprende la pista di atterraggio e le luci dell’aeroporto. Si decolla e sul monitor continua ad apparire l’immagine ripresa dalla telecamera. Mi chiedo cosa ci possa essere di tanto interessante da vedere, sono le 10 di sera. Ma dopo qualche minuto che saliamo il monitor si riempie di puntini luminosi: le stelle! Già, me ne ero dimenticato in queste sere a Shanghai. Come un idiota resto a fissare quello schermo come se fosse lo spettacolo più bello del mondo.

lunedì 17 giugno 2013

La città senza fine

A bordo del Maglev Train (che in 8 minuti traversa Pudong alla velocità di 400 Km/ora) ripenso a questi giorni spesi a Shanghai. Devo dire che, ancora una volta, non ho visto molto. Il lavoro, combinato al fuso orario, mi hanno costretto spesso in albergo e anche il caldo torrido non mi ha aiutato. Ma è possibile cogliere veramente qusta Shanghai moderna?
Questa mattina sono stato nella Shanghai vecchia. Sentivo di volerla vedere per avere
almeno un punto fermo. Da qui la città è partita, si vede la Cina più tradizionale insieme alle iniziali influenze occidentali. E si vedono i vecchi; già, ne avevo visti pochissimi fino ad ora. E qui soprattutto si ha la sensazione di una città che aveva un centro e dei confini.





Perché questa sensazione sembra perdersi nella Shanghai moderna. Alla fine penso che quella che ho visto non è una vera e propria città nel senso in cui noi Europei diamo a questa parola, ma l’effetto di un calcolo e di una pianificazione esponenziale.
In fondo quando ero in fila al controllo passaporti al mio arrivo all’aeroporto il visitatore doveva già capirlo. I monitor non ti spiegano solo come comportarti con l’ufficiale addetto ai controlli ma ti ripetono ossessivamente i traguardi raggiunti dalla crescita di Shanghai, del traffico passeggeri nel suo aeroporto. Istogrammi ti illustrano la crescita di tutto, e in tutto la crescita è esponenziale. L’impressione di Shanghai è quella di una città che avrebbe potuto nascere ovunque come il risultato di una formula calcolata a tavolino e fatta di coefficienti da assegnare a diverse variabili: investimenti finanziari, risorse umane a basso prezzo prese dalle campagne, quantità di acciaio e cemento necessario, metri di cavi elettrici, numero nascite pianificate, numero di centri commerciali per bacino di utenza, ecc.
Potrebbe un uomo prefiggersi il compito di visitarla tutta, palmo a palmo? Secondo me sarebbe impossibile. Perché quest'uomo, si troverebbe intrappolato in una sorta di paradosso di Achille e la tartaruga dei tempi moderni. Nel momento in cui avesse finito di percorrere un isolato o salire un grattacielo, vi sarebbero nuovi isolati e nuovi grattaceli sorti da qualche parte.
Una gigantesca e complicata funzione che tende ad un grado di infinito superiore espandendosi orizzontalmente e verticalmente moltiplicando sé stessa.
Ho letto che Shanghai ha avuto nella storia diverse definizioni: la Parigi d’oriente, per le sue ibridazioni europee; la puttana d’oriente per l’abbondare della  prostituzione e del gioco d’azzardo; la città senz’anima per essersi snaturata nell’era moderna; ma la definizione in cui mi sono trovato di più è quella della citta senza fine.

I gatti di Person

Ha scelto questo come nome occidentale: Person, facile, mi dice. Like ‘one person’, easy!. Questo me lo rende simpatico, non uno di quegli banali nomi americani.

Person ha aperto un Cat Cafè qui a Shanghai in South Shaanxi Road. Di cat cafè ce ne sono molti in effetti qui. Sono dei piccoli bar dove circolano liberamente dei gatti. Tutto è a tema di gatto, anche la suoneria del cellulare di Person fa miao.


Questi piccoli bar di solito sono ricavati da seminterrati nei cortili della vecchia Shanghai; ti devi infilare in un cancello e percorrere qualche decina di metri tra panni stesi, biciclette, bambini che giocano.
Sono circa le 11 di mattina e credo che Person abbia appena aperto il bar, sta pulendo e sono l’unico avventore.
 


Gli racconto che sono venuto lì perché mia moglie era molto curiosa della cosa, essendo un veterinario. Cominciamo a conversare, parla un buon inglese. Dall’intervistatore Cinese ho imparato l’intercalare utile per far ‘probing’, come diciamo noi ricercatori di mercato. Mentre in Europa usiamo mmm, mmm, qui si usa aaa, aaa…
Sembra che funzioni e Person comincia a raccontarmi del suo Cat Cafè. Sono soprattutto donne le frequentatrici. Arrivano sole o con altre amiche. Si beve e si mangia qualcosa, si chiacchiera e si accarezzano i gatti.
Person mi racconta che nel business del cat cafè è questione di trovare il giusto equilibrio nel il ruolo dei gatti. In alcuni cafè ci sono gatti molto invadenti, salgono sul tavolo, bevono nei bicchieri e mangiano il cibo nei piatti. Ad alcuni clienti può piacere ma non a tutti. La sua politica è una giusta via di mezzo.

Di gatti non ne vedo al momento. Person li chiama e li attira con dei crocchini per farmeli vedere ma loro se li mangiano e spariscono di nuovo. A quest’ora del giorno hanno altro da fare. Quel cortile deve essere per loro in effetti un bel paradiso.

La principessa Meirong di Putuo



E’ così che   mi appare da subito; la intravedo di schiena mentre si svolge la solita cerimonia della rimozione delle scarpe prima di entrare nell’appartamento. L’intervistata di oggi ha 20 anni e vive nel distretto di Putuo, che conta da solo più di un milione di abitanti. E’ seduta tutta in avanti, quasi sul bordo del divano, schiena eretta, le ginocchia unite, già in posa. Un vestito azzurro scuro, spalle rinforzate, una schiera di bottoni dorat. Un taglio di capelli perfetto che le circonda il viso rotondo. Un makeup impeccabile, un po’ da bambolina. Una vera principessa penso, si vede che le piace essere al centro dell’attenzione.

Cominciamo l’intervista, la traduttrice in simultanea, Jerry, mi sussurra all’orecchio. Meirong parla del suo stile di vita. “I miei genitori mi dicono che dovrei spendere meno in vestiti, in divertimenti, essere più seria nello studio ma io sono così: mi piace vivere come una principessa!”. E te pareva… Se c’è una cosa che il mio mestiere ti insegna, dopo centinaia di interviste fatte in tutti i luoghi e a tutti i tipi di persone, è a beccare al primo colpo dei tratti di personalità. Anche se sono a migliaia di chilometri di distanza da casa e non capisco una parola di cinese son cose che sento ormai a pelle.



In realtà il quartiere è tutt’altro che principesco. Prima dell’intervista io e il team dell’agenzia ci fermiamo a bere qualcosa. Sembra di essere a Quarto Oggiaro o giù di lì. I palazzi sono organizzati in blocchi, si entra da una sbarra con un guardiano. L’aspetto esteriore degli edifici e delle scale è trasandato, come tanta nostra periferia, il clima torrido contribuisce a darmi una sensazione di squallore anche se sembra un posto sicuro.

Dentro le case però le cose cambiano. Tutto è molto cool, TV a 50 pollici, home theatre, lampadari super tecnologici.

Meirong ha un fratello minore. Il padre deve averne di palanche per essersi permesso il lusso di un secondo figlio durante l’epoca della ‘one child policy’. Epoca che ora però è finita, almeno per Shanghai. Da quest’anno ci si può dar dentro a far figli, la regola è stata modificata. La ragione è molto semplice: il mercato immobiliare è andato alle stelle per la forte richiesta ma se ci fosse un decremento demografico i prezzi crollerebbero con danni incalcolabili. O calcolabilissimi perché qui si calcola tutto. Si analizza, si calcola e si esegue. E così si è tolta la regola, il mercato immobiliare sarà salvo per i prossimi anni.

Il padre assiste all’intervista della figlia, braccia incrociate. Un po’ guardingo, ma sicuramente molto orgoglioso della sua piccola principessa.



Vi chiederete perché parlo di Meirong. Molto semplice: perché di principesse come lei qui a Shanghai e in Cina ce ne sono moltissime, probabilmente centinaia di migliaia, forse in futuro saranno milioni. Ed è a loro che le grandi aziende guardano, sono loro che le grandi aziende corteggiano. Sono loro le vere trendsetter di questo nuovo consumo capitalistico pianificato. Loro che decidono le sorti di un brand durante i loro capricciosi shopping nei centri commerciali e nelle boutique di Nanjing Road – “Prada è diventato un po’ mass market, meglio Chanel o Hermes, anche Louis Vuitton non è male, ma nel loro negozio non mi hanno trattato molto bene…”. Per loro ragazzi di belle speranze si danneranno di lavoro per poter comprare una costosissima BMW e scarrozzarsele per Shanghai, sperando di sposarle, facendo a gara con altri acquirenti di Mercedes, Audi, ecc.

Perché poi dovete anche sapere che qui la ‘one child policy’ ha creato uno strano fenomeno: i maschi sono risultati parecchio più numerosi delle femmine perché avere una femmina veniva percepito come uno svantaggio. Il risultato paradossale (o calcolato?) è che le fanciulle sono in una posizione di privilegio, potendo e dovendo scegliere possono fare le capricciose, baciare il rospo che vogliono.

Alla fine dell’intervista Meirong mi chiede come è andata. Sembra una piccola attrice che chiede conforto della sua performance. Mi chiede da dove vengo. Italia, le dico. Meirong si illumina perché si sente corteggiata da questi marchi per lei principeschi.
Da italiano penso al mio paese sfigato e in declino, ma abbozzo; perché dirle la verità? Mi raccomando principessa, continua a sognare il principe azzurro e a far aprire il portafoglio di papà!

domenica 16 giugno 2013

Quel signore venuto dal nulla...



“I didn’t see your taxi Sir… how did you come here?” La ragazza della reception si mostra sinceramente stupita di questo attempato cinquantenne che si presenta dal nulla. Apparentemente le ho rotto degli schemi. Questo albergo è a Xintiandi, zona molto fighetta. L’unico lusso che mi sono tolto durante questo viaggio. Non pensiate che sia un alternativo a tutti i costi, il comfort mi piace ma questi alberghi finiscono per essere tutti molto simili, privandoti la visuale sul posto dove ti trovi e il mio cliente non mi paga certo per questo.
“I came by underground” Gli occhi della ragazza strabuzzano. In effetti ho visto pochi turisti in metrò. E non capisco il perché. I guidatori di taxi non parlano Inglese, bisogna avere una business card in cinese per farti portare ovunque. La metropolitana invece è semplicissima. Tutto segue una logica. E trovare la strada a piedi è ancora più semplice con Google Maps.
Quando poi spiego che vengo dall’ostello della gioventù le cose si complicano. La ragazza comincia a guardarmi come un alieno. Il portantino meno, lui capisce e sull’ascensore parliamo di prezzi. Questo hotel costa 10 volte l’ostello.
La camera è veramente molto bella, una bella scrivania su cui potrò lavorare per tre giorni e francamente ne avevo bisogno.

sabato 15 giugno 2013

No, qui non siamo a Piazza Taksim...



Entro nella stazione di East Nanjing Road e la scena mi colpisce subito. La ragazza sembra essere la supervisor di una squadra di dipendenti della metropolitana. Sono tutti ragazzi. In divisa, le mani composte dietro la schiena o davanti. Ovviamente non posso capire quello la supervisor sta dicendo ma dal tono sembra che sia stia tirando loro un cazziatone con i fiocchi. Mi ricorda il militare.
Il primo pensiero è quello che le nostre società occidentali non possono fare molto contro questa Cina. Ve la immaginate una scena del genere con i dipendenti dell’MM di Milano?
Certo questi millennials sembrano molto lontani dai loro coetanei  del Seki Park di piazza Taksim. Qui il distretto di Pudong è stato costruito dal nulla in meno di 10 anni, annientando territori agricoli per 450 miglia quadrate, costruendo una sterminata città nella città di 5 milioni di abitanti piena di grattaceli, facendo diventare Shanghai 7 volte New York, una città ‘senza fine’ come è stata definita ma anche senza più un cielo.  E nessuno sembra aver obbiettato nulla. Quanto sembrano lontane le proteste dei giovani turchi per la distruzione di un piccolo parco nella loro città…
Qui sei misurato su tutto nella tua performance. Guardando questi ragazzi mi consolo per quello che ho fatto all’aeroporto il giorno prima. Ogni responsabile del controllo passaporti ha un numero identificativo. Davanti al suo loculo c’è una pulsantiera dove il viaggiatore può fornire un punteggio riguardo alla soddisfazione di come è stato trattato. Una bella scala Likert a 4 punti come conosciamo noi ricercatori di mercato: Excellent, Good, Not very good, Not at all good. Il ragazzo paffutello fa il suo controllo e timbra, non che si prodighi in grandi gentilezze ma alla fine pigio il tasto con il punteggio più alto. Che altro doveva fare del resto? Meno male,chissà che cazziatone si sarebbe beccato se avessi dato un punteggio più basso…
Mentre scatto le foto una delle ragazze in fila mi guarda con la coda degli occhi. In lei colgo un filo di vergogna. E’ vero, mi accorgo che a me non avrebbe fatto piacere essere fotografato in quel frangente, mi sento anche io in imbarazzo ad averle rubato quell’attimo. Poi però penso che forse questo ci accomuna, che se lei prova vergogna nell’essere umiliata in quel modo, magari dopo aver studiato tanto, magari da una supervisor che vale meno di lei ma è soltanto più paracula… se prova questo, allora nel futuro potrà essere diversa? Potrà forse cambiare le cose?