Non si parla di altro qui a Istanbul. Persino nella mia intervista di oggi, Abdullah, un tranquillo ed affabile signore di 48 anni, ex bancario, ora pensionato, parlava di quello che stava succedendo con interesse e quasi invidia per non essere lì.
"Al telegiornale non raccontano le cose come stanno, ma su
Facebook...".
La città è più trafficata del solito perché tutte le auto devono aggirare
l'ostacolo di piazza Taksim. Se ne parla con una certa ammirazione ma anche
timore.
Sto mangiando al ristorante leggendo un libro sulla storia della Turchia e
leggo delle repressioni del governo durante gli anni '60. Nella app di google
maps digito Taksim Square e guardo la mia posizione: 13 minuti a piedi!
Incredibile, qui sembra tutto così non toccato dalla faccenda. Pago il conto e
mi incammino.
Mano a mano che mi avvicino sento i rumori della piazza salire. Più che una
rivolta violenta mi sembra di sentire i suoni di una grande festa.
I venditori ambulanti schierati all’ingresso della piazza sembrano aver
capito già tutto. E’ qui che tira il vento.
Da un lato della piazza, accanto al parco, il cratere del cantiere che era
appena cominciato e dove si stava per costruire l’ennesimo centro commerciale di
questa Istanbul in pieno boom economico.
Entro nel parco e questa nuova Woodstock un po’ orientale e interamente
digitale mi si para davanti agli occhi.
Orientale negli odori, nelle melodie e nei ritmi. Digitale perché non sono
solo migliaia di giovani ad essere radunati lì ma migliaia di smarphones che
fimano, postano su FB, twittano.
Una ragazza su un palco con un microfono in mano legge dei tweet e la gente
applaude, applaude e twitta... E poi balla.
E anche io non faccio che fotografare e filmare con il mio iPhone.
Fuori dal parco c’è un’auto distrutta e semi bruciata, probabilmente
rimasta lì dagli scontri dei giorni scorsi. Dei ragazzi sono seduti dentro in
un piccolo e innocente rave party formato medio orientale. Ridono divertiti ed
eccitati.
Torno in albergo, all’uscita della piazza ci sono due ragazzi che hanno
acceso un fuoco. Sono gli unici veramente piombati che ho visto in tutta la
piazza perché gli altri mi sono apparsi tutti molto lucidi e consapevoli.
Verso mezzanotte sto caricando il mio video di Taksim su YouTube ma
improvvisamente il collegamento ad internet si interrompe. Penso a qualche
problema tecnico dell’albergo. La mattina dopo mi sveglio ed ancora niente
internet; esco verso le 9 per andare alla prossima intervista. La strada è
transennata e c’è un posto di blocco. Stanno attaccando, mi dicono. Ora capisco
perché forse hanno interrotto internet nella zona.
L’intervistata è una ragazza di 16 anni. Quando arriviamo tutti sono
attaccati alla TV dove in livestream mandano le immagini della piazza. La
sorella maggiore, in perfetto inglese, mi dice che il governo ha mandato lì dei
provocatori con delle molotov per avere la scusa di attaccare, la cosa sembra
palese a tutti, anche alla madre che ha 55 anni, annuisce.
L’intervista ha inizio, sulla poltrona accanto a me la sorella sta
incollata all’iPhone per seguire gli avvenimenti.
Da parte mia devo testimoniare che la gente che ho visto era assolutamente
pacifica.
Potrei sbagliarmi ma ho avuto la sensazione che, indipendentemente da come
andrà a finire nella piazza, quei ragazzi avessero già vinto. Al di là delle
bandiere del Che, di qualche look alternativo, io ho visto facce da futuri
ingegneri, medici, matematici, manager. Facce di gente che sta per affrontare un futuro che può spaventare e che di cui si vuole prendere il controllo. Si prevede che la Turchia diventerà il
secondo paese europeo per importanza economica e non si fa fatica a crederlo.
Questi ragazzi hanno il futuro in tasca e il vento in poppa, non sarà certo la polizia a fermarli.
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